Ilde Manuela Paolucci ci invia questa sua riflessione sulla tappa di Ascoli – l’immagine è di Andrea Di Cinzio.
«Diorama
In questo terzo libro
ultimo o quintultimo
o penultimo nell’ombra
si scoprono tre righe:
“Io penitente progettai l’armadio
tra paradisi e sismi
sotto le finestre”.
In questo libro quarto
ultimo o sestultimo
o penultimo sotto il vetro
si rafforza il concetto:
“Io resistente progettavo il letto
tra assestamenti e crolli
sotto le campane”.
L’Orestea di Gibellina, di Emilio Isgrò, è un’opera che non conoscevo fino a qualche mese fa. Durante la prima tappa Villard, però, nel corso della visita al Museo delle Trame Mediterranee a Gibellina, mi sono imbattuta in alcuni stralci della drammaturgia teatrale. Avevo assimilato solo frasi sconnesse e senza un filo logico, non ne capivo realmente il senso.
Adesso, camminando tra le ferite di Amatrice, le stesse frasi mi colpiscono con violenza. Per la seconda volta, dall’inizio di questa esperienza, mi ritrovo in una città fantasma. La prima era Gibellina Nuova, satura di edifici, ma vuota e inconsistente nell’anima. Questa volta, invece, è una città che ha solo il ricordo di ciò che è stata in precedenza. Non c’è costruito, non è un dipinto congelato e fine a se stesso, non c’è lo stesso vuoto. Qui il dolore è palpabile ed è così diverso, ora che non è filtrato dallo schermo di un televisore o dalla pagina in bianco e nero di un giornale.
Sono turbata, non ho nulla da dire, non ho foto da scattare. Accetto semplicemente di camminare e osservare, cercando di immaginare cosa potesse esserci attorno a me appena un anno e mezzo fa. Vedo un monumento ai caduti: probabilmente simbolo di una piazza, mi viene da pensare a quante persone si saranno date appuntamento ai suoi piedi. Vedo i resti di un campanile: una chiesa, sento quasi il suono delle campane propagarsi tra i vicoli del paese. Vedo un’insegna: è di una banca, si trovava proprio all’incrocio. Vedo quel che rimane di un materasso: probabilmente qui c’era una casa e in questa camera dormiva una persona. Vedo dei vestiti, poi un peluche: forse si trattava della stanza di un bambino.
A questo punto devo distogliere lo sguardo, perché ho l’impressione di essere entrata nell’intimità di queste persone senza neanche aver chiesto il permesso.
Guardo lontano, verso le montagne: c’è una vista mozzafiato. Il paesaggio è così bello che, per qualche secondo, mi dimentico di quanto pesi la realtà. La Natura non ha colpe, fa solo il suo corso. L’uomo si ritrova catapultato in qualcosa che non può essere controllato. Ma se c’è una cosa meravigliosa che è assolutamente in grado di fare, è rinascere dalle ceneri. A volte ci mette più tempo, a volte fa maggiore fatica, a volte lo fa nella maniera errata.
Così mi rendo conto sempre di più di quanta responsabilità abbia un architetto e chi, come lui, è chiamato a costruire e ri-costruire una realtà. Apprendo realmente l’importanza di ciò che stiamo facendo in questo percorso e mi sono sempre più chiari tutti i discorsi ascoltati in questi anni. La teoria diventa realtà e non si può, e non si deve, far finta di non vedere o non sentire.
Con questo pensiero risalgo sul pullman e mi volto ad osservare la Zona Rossa un’ultima volta, mentre scompare in lontananza.
Amatrice appare immobile, ma in realtà è viva. Nonostante le macerie, nonostante la polvere, l’aria ha l’odore dell’attesa. È come se fosse solo in pausa, come se si fosse presa un momento per respirare, per poter poi ricominciare daccapo.
Ilde Manuela Paolucci»